San Tommaso Apostolo - Parrocchia Santi Filippo e Giacomo di Parona

Parrocchia Santi Filippo e Giacomo Parona - VR -
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San Tommaso Apostolo

San Tommaso  Apostolo

Prima Lettura:
  Ef 2, 19-22;  Lectio

Salmo Responsoriale:  Salmo 116

Canto al Vangelo: Gv 20,29

Vangelo
: Gv 20, 24-29     Lectio
3 LUGLIO  SAN TOMMASO, APOSTOLO
Tommaso significa in aramaico «il gemello», per questo Giovanni lo chiama col nome greco «Didimo» (Gv 11,16; 20,24). I sinottici si accontentano di nominare Tommaso nell’elenco degli apostoli (Mt 10,3; Atti 1,13); invece Giovanni, il cui vangelo si diffonde sui diversi modi di «conoscenza» o di «non accettazione» del messaggio di Cristo, sembra dare una grande importanza alle sue reazioni nella vita quotidiana degli apostoli. Per questo egli considera Tommaso quasi come un simbolo della loro incredulità:  Tommaso percepisce subito le difficoltà e i pericoli di un viaggio a Gerusalemme, ma non ne afferra il profondo significato (Gv 11,16); con il suo realismo non si entusiasma alle prospettive del discorso del Signore durante l’ultima Cena (Gv 14,1-6).
Dopo la risurrezione pretende una conoscenza sperimentale e «carnale» del Cristo, quando si trattava di una conoscenza «spirituale», di fede (Gv 20,24-
29). Ma alcuni giorni dopo si trova di nuovo in mezzo ai discepoli che avevano riconosciuto il Cristo risorto, e il suo riconoscimento di Gesù diviene una commossa professione di fede: «Signore mio e Dio mio» (Gv 20,28). La vita di Tommaso è un lungo itinerario che parte dal realismo umano e arriva alla conoscenza nello Spirito.

Non si conoscono le circostanze dell’opera di Tommaso dopo la Pentecoste. Pare che abbia varcato le frontiere dell’impero romano verso la Persia e l’India. Ma questa tradizione medioevale, che attribuisce ad ogni apostolo un settore geografico, corre il rischio di non essere fedele alla dottrina. Il collegio degli apostoli, infatti, è responsabile della missione in tutto il mondo.
Signore mio e Dio mio
Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno, papa
(Om. 26, 7-9; PL 76, 1201-1202)
«Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù» (Gv 20, 24). Questo solo discepolo era assente. Quando ritornò udì il racconto dei fatti accaduti, ma rifiutò di credere a quello che aveva sentito. Venne ancora il Signore e al discepolo incredulo offrì il costato da toccare, mostrò le mani e, indicando la cicatrice delle sue ferite, guarì quella della sua incredulità.
Che cosa, fratelli, intravedere in tutto questo? Attribuite forse a un puro caso che quel discepolo scelto dal Signore sia stato assente, e venendo poi abbia udito il fatto, e udendo abbia dubitato, e dubitando abbia toccato, e toccando abbia creduto?
No, questo non avvenne a caso, ma per divina disposizione. La clemenza del Signore ha agito in modo meraviglioso, poiché quel discepolo, con i suoi dubbi, mentre nel suo maestro toccava le ferite del corpo, guariva in noi le ferite dell'incredulità. L'incredulità di Tommaso ha giovato a noi molto più, riguardo alla fede, che non la fede degli altri discepoli. Mentre infatti quello viene ricondotto alla fede col toccare, la nostra mente viene consolidata nella fede con il superamento di ogni dubbio. Così il discepolo, che ha dubitato e toccato, è divenuto testimone della verità della risurrezione.

Toccò ed esclamò: «Mio Signore e mio Dio!».

Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto» (Gv 20, 28-
29). Siccome l'apostolo Paolo dice: «La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono», è chiaro che la fede è prova di quelle cose che non si possono vedere. Le cose che si vedono non richiedono più la fede, ma sono oggetto di conoscenza. Ma se Tommaso vide e toccò, come mai gli vien detto: «Perché mi hai veduto, ha creduto?» Altro però fu ciò che vide e altro ciò in cui credette. La divinità infatti non può essere vista da uomo mortale. Vide dunque un uomo e riconobbe Dio, dicendo: «Mio Signore e mio Dio!». Credette pertanto vedendo. Vide un vero uomo e disse che era quel Dio che non poteva vedere.

Ci reca grande gioia quello che segue: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Gv 20, 28). Con queste parole senza dubbio veniamo indicati specialmente noi, che crediamo in colui che non abbiamo veduto con i nostri sensi. Siamo stati designati noi, se però alla nostra fede facciamo seguire le opere. Crede infatti davvero colui che mette in pratica con la vita la verità in cui crede. Dice invece san Paolo di coloro che hanno la fede soltanto a parole: «Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti» (Tt 1, 16). E Giacomo scrive: «La fede senza le opere è morta» (Gc 2, 26).

Fonte  - Maràn athà Vieni, Signore Gesù! -
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